Italo Calvino “Lezioni americane”

Italo Calvino “Lezioni americane”

Le “Lezioni americane” di Italo Calvino (sottotitolo: Sei proposte per il prossimo millennio) è un libro basato su di una serie di lezioni preparate dall’autore nel 1985 in vista di un ciclo di sei lezioni da tenere all’Università di Harvard, nell’ambito delle prestigiose “Poetry Lectures” – intitolate al dantista e storico dell’arte americano Charles Eliot Norton. Il ciclo, previsto per l’autunno di quello stesso anno, non si è mai tenuto a causa della morte di Calvino avvenuta nel settembre 1985.
Anche se scritte ormai qualche decennio fa, costituiscono ancora oggi un testo estremamente moderno e polivalente, non soltanto in ambito letterario ma anche come strumento per capire i nuovi sistemi di comunicazione, soprattutto legati al mondo digitale.
Ogni capitolo è dedicato a 6 pilastri che secondo Calvino rappresentano un valore fondamentale del testo letterario (e, per estensione, della comunicazione in generale).

Questo è un estratto relativo alla “leggerezza”.

Leggerezza
Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e
sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io
consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza
penso d’aver più cose da dire. Dopo quarant’anni che scrivo fiction,
dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è
venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro;
proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una
sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane,
ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso
alla struttura del racconto e al linguaggio. In questa conferenza
cercherò di spiegare – a me stesso e a voi – perché sono stato portato a
considerare la leggerezza un valore anziché un difetto; quali sono gli
esempi tra le opere del passato in cui riconosco il mio ideale di
leggerezza; come situo questo valore nel presente e come lo proietto
nel futuro. Comincerò dall’ultimo punto. Quando ho iniziato la mia
attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo
categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo
d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro
secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una
sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora
grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a
scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero
dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che
volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre
più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza,
l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla
scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. In certi momenti mi
sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta
pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei
luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se
nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. L’unico
eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi
sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della
Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo.
Ecco che Perseo mi viene in soccorso anche in questo momento,
mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra, come mi succede
ogni volta che tento una rievocazione storico-autobiografica. Meglio
lasciare che il mio discorso si componga con le immagini della
mitologia. Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare,
Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e
spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione
indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. Subito sento la
tentazione di trovare in questo mito un’allegoria del rapporto del poeta
col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo. Ma so che
ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non
bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria,
fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal
loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito
sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal
di fuori. Il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce
con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un
cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata
nel suo contrario; con un colpo di zoccolo sul Monte Elicona, Pegaso fa
scaturire la fonte da cui bevono le Muse. In alcune versioni del mito,
sarà Perseo a cavalcare il meraviglioso Pegaso caro alle Muse, nato dal
sangue maledetto di Medusa. (Anche i sandali alati, d’altronde,
provenivano dal mondo dei mostri: Perseo li aveva avuti dalle sorelle di
Medusa, le Graie dall’unico occhio). Quanto alla testa mozzata, Perseo
non l’abbandona ma la porta con sé, nascosta in un sacco; quando i
nemici stanno per sopraffarlo, basta che egli la mostri sollevandola per
la chioma di serpenti, e quella spoglia sanguinosa diventa un’arma
invincibile nella mano dell’eroe: un’arma che egli usa solo in casi
estremi e solo contro chi merita il castigo di diventare la statua di se
stesso. Qui certo il mito vuol dirmi qualcosa, qualcosa che è implicito
nelle immagini e che non si può spiegare altrimenti. Perseo riesce a
padroneggiare quel volto tremendo tenendolo nascosto, come prima
l’aveva vinto guardandolo nello specchio. È sempre in un rifiuto della
visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della
realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che
egli porta con sé, che assume come proprio fardello. Sul rapporto tra
Perseo e la Medusa possiamo apprendere qualcosa di più leggendo
Ovidio nelle Metamorfosi. Perseo ha vinto una nuova battaglia, ha
massacrato a colpi di spada un mostro marino, ha liberato Andromeda.
E ora si accinge a fare quello che ognuno di noi farebbe dopo un
lavoraccio del genere: va a lavarsi le mani. In questi casi il suo problema
è dove posare la testa di Medusa. E qui Ovidio ha dei versi (Iv, 740-752)
che mi paiono straordinari per spiegare quanta delicatezza d’animo sia
necessaria per essere un Perseo, vincitore di mostri: “Perché la ruvida
sabbia non sciupi la testa anguicrinita (anguiferumque caput dura ne
laedat harena), egli rende soffice il terreno con uno strato di foglie, vi
stende sopra dei ramoscelli nati sott’acqua e vi depone la testa di
Medusa a faccia in giù”. Mi sembra che la leggerezza di cui Perseo è
l’eroe non potrebbe essere meglio rappresentata che da questo gesto di
rinfrescante gentilezza verso quell’essere mostruoso e tremendo ma
anche in qualche modo deteriorabile, fragile. Ma la cosa più inaspettata
è il miracolo che ne segue: i ramoscelli marini a contatto con la Medusa
si trasformano in coralli, e le ninfe per adornarsi di coralli accorrono e
avvicinano ramoscelli e alghe alla terribile testa. Anche questo incontro
d’immagini, in cui la sottile grazia del corallo sfiora l’orrore feroce della
Gorgone, è così carico di suggestioni che non vorrei sciuparlo tentando
commenti o interpretazioni. Quel che posso fare è avvicinare a questi
versi d’Ovidio quelli d’un poeta moderno, Piccolo testamento di
Eugenio Montale, in cui troviamo pure elementi sottilissimi che sono
come emblemi della sua poesia (“traccia madreperlacea di lumaca o
smeriglio di vetro calpestato”) messi a confronto con uno spaventoso
mostro infernale, un Lucifero dalle ali di bitume che cala sulle capitali
dell’Occidente. Mai come in questa poesia scritta nel 1953, Montale ha
evocato una visione così apocalittica, ma ciò che i suoi versi mettono in
primo piano sono quelle minime tracce luminose che egli contrappone
alla buia catastrofe (“Conservane la cipria nello specchietto quando
spenta ogni lampada la sardana si farà infernale…”). Ma come possiamo
sperare di salvarci in ciò che è più fragile? Questa poesia di Montale è
una professione di fede nella persistenza di ciò che più sembra
destinato a perire, e nei valori morali investiti nelle tracce più tenui: “il
tenue bagliore strofinato laggiù non era quello d’un fiammifero”. Ecco
che per riuscire a parlare della nostra epoca, ho dovuto fare un lungo
giro, evocare la fragile Medusa di Ovidio e il bituminoso Lucifero di
Montale. È difficile per un romanziere rappresentare la sua idea di
leggerezza, esemplificata sui casi della vita contemporanea, se non
facendone l’oggetto irraggiungibile d’una quête senza fine. È quanto ha
fatto con evidenza e immediatezza Milan Kundera. Il suo romanzo
L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere è in realtà un’amara constatazione
dell’Ineluttabile Pesantezza del Vivere: non solo della condizione
d’oppressione disperata e all-pervading che è toccata in sorte al suo
sventurato paese, ma d’una condizione umana comune anche a noi, pur
infinitamente più fortunati. Il peso del vivere per Kundera sta in ogni
forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che
finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti. Il suo
romanzo ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e
apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso
insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza
sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romanzo, che
appartengono a un altro universo da quello del vivere. Nei momenti in
cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso
che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di
fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio
approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica,
altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io
cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del
presente e del futuro… Nell’universo infinito della letteratura s’aprono
sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme
che possono cambiare la nostra immagine del mondo… Ma se la
letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei
sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni
pesantezza viene dissolta… Oggi ogni ramo della scienza sembra ci
voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i
messaggi del Dna, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti
nello spazio dall’inizio dei tempi… Poi, l’informatica. È vero che il
software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non
mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda,
che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in
funzione del software, si evolvono in modo d’elaborare programmi
sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si
presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di
laminatoi o colate d’acciaio, ma come i bits d’un flusso d’informazione
che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici. Le macchine di
ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso. È legittimo
estrapolare dal discorso delle scienze un’immagine del mondo che
corrisponda ai miei desideri? Se l’operazione che sto tentando mi
attrae, è perché sento che essa potrebbe riannodarsi a un filo molto
antico nella storia della poesia. Il De rerum natura di Lucrezio è la prima
grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa
dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è
infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il
poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa
materia è fatta di corpuscoli invisibili. È il poeta della concretezza fisica,
vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci
dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi. La più grande
preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della
materia ci schiacci. Al momento di stabilire le rigorose leggi meccaniche
che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli
atomi delle deviazioni imprevedibili dalla linea retta, tali da garantire la
libertà tanto alla materia quanto agli esseri umani. La poesia
dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così
come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla
fisicità del mondo. Questa polverizzazione della realtà s’estende anche
agli aspetti visibili, ed è là che eccelle la qualità poetica di Lucrezio: i
granelli di polvere che turbinano in un raggio di sole in una stanza buia
(Ii, 114-124); le minute conchiglie tutte simili e tutte diverse che l’onda
mollemente spinge sulla bibula harena, sulla sabbia che s’imbeve (Ii,
374-376); le ragnatele che ci avvolgono senza che noi ce ne accorgiamo
mentre camminiamo (Iii, 381-390). Ho già citato le Metamorfosi
d’Ovidio, un altro poema enciclopedico (scritto una cinquantina d’anni
più tardi di quello di Lucrezio) che parte, anziché dalla realtà fisica, dalle
favole mitologiche. Anche per Ovidio tutto può trasformarsi in nuove
forme; anche per Ovidio la conoscenza del mondo è dissoluzione della
compattezza del mondo; anche per Ovidio c’è una parità essenziale tra
tutto ciò che esiste, contro ogni gerarchia di poteri e di valori. Se il
mondo di Lucrezio è fatto d’atomi inalterabili, quello d’Ovidio è fatto di
qualità, d’attributi, di forme che definiscono la diversità d’ogni cosa e
pianta e animale e persona; ma questi non sono che tenui involucri
d’una sostanza comune che, – se agitata da profonda passione – può
trasformarsi in quel che vi è di più diverso. È nel seguire la continuità
del passaggio da una forma a un’altra che Ovidio dispiega le sue
ineguagliabili doti: quando racconta come una donna s’accorge che sta
trasformandosi in giuggiolo: i piedi le rimangono inchiodati per terra,
una corteccia tenera sale a poco a poco e le serra le inguini; fa per
strapparsi i capelli e ritrova la mano piena di foglie. O quando racconta
delle dita di Aracne, agilissime nell’agglomerare e sfilacciare la lana, nel
far girare il fuso, nel muovere l’ago da ricamo, e che a un tratto
vediamo allungarsi in esili zampe di ragno e mettersi a tessere
ragnatele. Tanto in Lucrezio quanto in Ovidio la leggerezza è un modo di
vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza: le dottrine di
Epicuro per Lucrezio, le dottrine di Pitagora per Ovidio (un Pitagora che,
come Ovidio ce lo presenta, somiglia molto a Budda). Ma in entrambi i
casi la leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura, con i mezzi
linguistici che sono quelli del poeta, indipendentemente dalla dottrina
del filosofo che il poeta dichiara di voler seguire. Da quanto ho detto fin
qui mi pare che il concetto di leggerezza cominci a precisarsi; spero
innanzitutto d’aver dimostrato che esiste una leggerezza della
pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della
frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza
come pesante e opaca. Non potrei illustrare meglio questa idea che con
una novella del Decameron (Vi, 9) dove appare il poeta fiorentino Guido
Cavalcanti. Boccaccio ci presenta Cavalcanti come un austero filosofo
che passeggia meditando tra i sepolcri di marmo davanti a una chiesa.
La jeunesse dorée fiorentina cavalcava per la città in brigate che
passavano da una festa all’altra, sempre cercando occasioni d’ampliare
il loro giro di scambievoli inviti. Cavalcanti non era popolare tra loro,
perché, benché fosse ricco ed elegante, non accettava mai di far
baldoria con loro e perché la ua misteriosa filosofia era sospettata
d’empietà: Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto
San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San
Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo arche grandi
di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San
Giovanni, e egli essendo tralle colonne del porfido che vi sono e quelle
arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua
brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, vedendo
Guido là tra quelle sepolture, dissero: “Andiamo a dargli briga”; e
spronati i cavalli, a guisa d’uno assalto sollazzevole gli furono, quasi
prima che egli se ne avvedesse, sopra e cominciarongli a dire: “Guido,
tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che
Idio non sia, che avrai fatto?”. A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso,
prestamente disse: “Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi
piace”; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì
come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall’altra
parte, e sviluppatosi da loro se n’andò. Ciò che qui ci interessa non è
tanto la battuta attribuita a Cavalcanti, (che si può interpretare
considerando che il preteso “epicureismo” del poeta era in realtà
averroismo, per cui l’anima individuale fa parte dell’intelletto
universale: le tombe sono casa vostra e non mia in quanto la morte
corporea è vinta da chi s’innalza alla contemplazione universale
attraverso la speculazione dell’intelletto). Ciò che ci colpisce è
l’immagine visuale che Boccaccio evoca: Cavalcanti che si libera d’un
salto “sì come colui che leggerissimo era”. Se volessi scegliere un
simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo:
l’agile salto improvviso del poeta- filosofo che si solleva sulla pesantezza
del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della
leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi,
rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della
morte, come un cimitero d’automobili arrugginite. Vorrei che
conservaste quest’immagine nella mente, ora che vi parlerò di
Cavalcanti poeta della leggerezza. Nelle sue poesie le “dramatis
personae” più che personaggi umani sono sospiri, raggi luminosi,
immagini ottiche, e soprattutto quegli impulsi o messaggi immateriali
che egli chiama “spiriti”. Un tema niente affatto leggero come la
sofferenza d’amore, viene dissolto da Cavalcanti in entità impalpabili
che si spostano tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e
mente, tra occhi e voce. Insomma, si tratta sempre di qualcosa che è
contraddistinto da tre caratteristiche: 1) è leggerissimo; 2) è in
movimento; 3) è un vettore d’informazione. In alcune poesie questo
messaggio-messaggero è lo stesso testo poetico: nella più famosa di
tutte, il poeta esiliato si rivolge alla ballata che sta scrivendo e dice: “Va
tu, leggera e piana dritt’a la donna mia”. In un’altra sono gli strumenti
della scrittura – penne e arnesi per far la punta alle penne – che
prendono la parola: “Noi siàn le triste penne isbigottite, le cesoiuzze Èl
coltellin dolente…”. In un sonetto la parola “spirito” o “spiritello”
compare in ogni verso: in un’evidente autoparodia, Cavalcanti porta alle
ultime conseguenze la sua predilezione per quella parola-chiave,
concentrando nei 14 versi un complicato racconto astratto in cui
intervengono 14 “spiriti” ognuno con una diversa funzione. In un altro
sonetto, il corpo viene smembrato dalla sofferenza amorosa, ma
continua a camminare come un automa “fatto di rame o di pietra o di
legno”. Già in un sonetto di Guinizelli la pena amorosa trasformava il
poeta in una statua d’ottone: un’immagine molto concreta, che ha la
forza proprio nel senso di peso che comunica. In Cavalcanti, il peso della
materia si dissolve per il fatto che i materiali del simulacro umano
possono essere tanti, intercambiabili; la metafora non impone un
oggetto solido, e neanche la parola “pietra” arriva ad appesantire il
verso. Ritroviamo quella parità di tutto ciò che esiste di cui ho parlato a
proposito di Lucrezio e di Ovidio. Un maestro della critica stilistica
italiana, Gianfranco Contini, la definisce “parificazione cavalcantiana dei
reali”. L’esempio più felice di “parificazione dei reali”, Cavalcanti lo dà in
un sonetto che s’apre con una enumerazione d’immagini di bellezza,
tutte destinate a essere superate dalla bellezza della donna amata: Biltà
di donna e di saccente core e cavalieri armati che sien genti; cantar
d’augelli e ragionar d’amore; adorni legni ‘n mar forte correnti; aria
serena quand’apar l’albore e bianca neve scender senza venti; rivera
d’acqua e prato d’ogni fiore; oro, argento, azzurro ‘n ornamenti: Il verso
“e bianca neve scender senza venti” è stato ripreso con poche varianti
da Dante nell’Inferno (Xiv, 30): “come di neve in alpe sanza vento”. I due
versi sono quasi identici, eppure esprimono due concezioni
completamente diverse. In entrambi la neve senza vento evoca un
movimento lieve e silenzioso. Ma qui si ferma la somiglianza e comincia
la diversità. In Dante il verso è dominato dalla specificazione del luogo
(“in alpe”), che evoca uno scenario montagnoso. Invece in Cavalcanti
l’aggettivo “bianca”, che potrebbe sembrare pleonastico, unito al verbo
“scendere”, anch’esso del tutto prevedibile, cancellano il paesaggio in
un’atmosfera di sospesa astrazione. Ma è soprattutto la prima parola a
determinare il diverso significato dei due versi. In Cavalcanti la
congiunzione “e” mette la neve sullo stesso piano delle altre visioni che
la precedono e la seguono: una fuga di immagini, che è come un
campionario delle bellezze del mondo. In Dante l’avverbio “come”
rinchiude tutta la scena nella cornice d’una metafora, ma all’interno di
questa cornice essa ha una sua realtà concreta, così come una realtà
non meno concreta e drammatica ha il paesaggio dell’Inferno sotto una
pioggia di fuoco, per illustrare il quale viene introdotta la similitudine
con la neve. In Cavalcanti tutto si muove così rapidamente che non
possiamo renderci conto della sua consistenza ma solo dei suoi effetti;
in Dante, tutto acquista consistenza e stabilità: il peso delle cose è
stabilito con esattezza. Anche quando parla di cose lievi, Dante sembra
voler rendere il peso esatto di questa leggerezza: “come di neve in alpe
sanza vento”. Così come in un altro verso molto simile, la pesantezza
d’un corpo che affonda nell’acqua e scompare è come trattenuta e
attutita: “come per acqua cupa cosa grave” (Paradiso Iii, 123). A questo
punto dobbiamo ricordarci che l’idea del mondo come costituito
d’atomi senza peso ci colpisce perché abbiamo esperienza del peso
delle cose; così come non potremmo ammirare la leggerezza del
linguaggio se non sapessimo ammirare anche il linguaggio dotato di
peso. Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo
della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un
elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o
meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi
magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore,
la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni. Alle origini della
letteratura italiana – e europea – queste due vie sono aperte da
Cavalcanti e da Dante. L’opposizione vale naturalmente nelle sue linee
generali, ma richiederebbe innumerevoli specificazioni, data l’enorme
ricchezza di risorse di Dante e la sua straordinaria versatilità. Non è un
caso che il sonetto di Dante ispirato alla più felice leggerezza (“Guido, i’
vorrei che tu e Lapo ed io”) sia dedicato a Cavalcanti. Nella Vita nuova,
Dante tratta la stessa materia del suo maestro e amico, e vi sono
parole, motivi e concetti che si trovano in entrambi i poeti; quando
Dante vuole esprimere leggerezza, anche nella Divina Commedia,
nessuno sa farlo meglio di lui; ma la sua genialità si manifesta nel senso
opposto, nell’estrarre dalla lingua tutte le possibilità sonore ed
emozionali e d’evocazione di sensazioni, nel catturare nel verso il
mondo in tutta la varietà dei suoi livelli e delle sue forme e dei suoi
attributi, nel trasmettere il senso che il mondo è organizzato in un
sistema, in un ordine, in una gerarchia dove tutto trova il suo posto.
Forzando un po’ la contrapposizione potrei dire che Dante dà solidità
corporea anche alla più astratta speculazione intellettuale, mentre
Cavalcanti dissolve la concretezza dell’esperienza tangibile in versi dal
ritmo scandito, sillabato, come se il pensiero si staccasse dall’oscurità in
rapide scariche elettriche. L’essermi soffermato su Cavalcanti m’è
servito a chiarire meglio (almeno a me stesso) cosa intendo per
“leggerezza”. La leggerezza per me si associa con la precisione e la
determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Paul Valéry
ha detto: “Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume”.
Mi sono servito di Cavalcanti per esemplificare la leggerezza in almeno
tre accezioni diverse: 1) un alleggerimento del linguaggio per cui i
significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso,
fino ad assumere la stessa rarefatta consistenza. Lascio a voi trovare
altri esempi in questa direzione. Per esempio Emily Dickinson può
fornircene quanti vogliamo: A sepal, petal, and a thorn Upon a common
summer’s morn – A flask of Dew – a Bee or two – A Breeze – a caper in
the trees – And I’m a Rose! Un sepalo ed un petalo e una spina In un
comune mattino d’estate, Un fiasco di rugiada, un’ape o due, Una
brezza, Un frullo in mezzo agli alberi – Ed io sono una rosa! 2) la
narrazione d’un ragionamento o d’un processo psicologico in cui
agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque descrizione che
comporti un alto grado d’astrazione. E qui per cercare un esempio più
moderno possiamo provare con Henry James, anche aprendo un suo
libro a caso: It was as if these depths, constantly bridged over by a
structure that was firm enough in spite of its lightness and of its
occasional oscillation in the somewhat vertiginous air, invited on
occasion, in the interest of their nerves, a dropping of the plummet and
a measurement of the abyss. A difference had been made moreover,
once for all, by the fact that she had, all the while, not appered to feel
the need of rebutting his charge of an idea within her that she didn’t
dare to express, uttered just before one of the fullest of their later
discussions ended. (The Beast in the Jungle). Queste profondità,
costantemente unite da un ponte abbastanza solido malgrado la sua
levità e le sue occasionali oscillazioni nell’aria alquanto vertiginosa,
richiedevano ogni tanto, nell’interesse dei loro nervi, la calata dello
scandaglio e la misurazione dell’abisso. Una differenza, inoltre, era stata
creata una volta per sempre dal fatto che May, durante tutto il tempo,
non parve sentire la necessità di respingere l’accusa di celare un’idea,
che non osava esprimere, accusa che Marcher le mosse proprio alla fine
di una delle loro ultime discussioni. 3) una immagine figurale di
leggerezza che assuma un valore emblematico, come, nella novella di
Boccaccio, Cavalcanti che volteggia con le sue smilze gambe sopra la
pietra tombale. Ci sono invenzioni letterarie che s’impongono alla
memoria per la loro suggestione verbale più che per le parole. La scena
di Don Quijote che infilza con la lancia una pala del mulino a vento e
viene trasportato in aria occupa poche righe del romanzo di Cervantes;
si può dire che in essa l’autore non ha investito che in minima misura le
risorse della sua scrittura; ciononostante essa resta uno dei luoghi più
famosi della letteratura di tutti i tempi. Penso che con queste
indicazioni posso mettermi a sfogliare i libri della mia biblioteca in cerca
d’esempi di leggerezza. In Shakespeare vado subito a cercare il punto in
cui Mercuzio entra in scena: “You are a lover; borrow Cupid’s wings and
soar with them above a common bound” (Tu sei innamorato: fatti
prestare le ali da Cupido e levati più alto d’un salto). Mercuzio
contraddice subito Romeo che ha appena detto: “Under lovÈs heavy
burden do I sink” (io sprofondo sotto un peso d’amore). Il modo di
Mercuzio di muoversi nel mondo è definito dai primi verbi che usa: to
dance, to soar, to prickle (ballare, levarsi, pungere). La sembianza
umana è una maschera, a visor. È appena entrato in scena e già sente il
bisogno di spiegare la sua filosofia, non con un discorso teorico, ma
raccontando un sogno: la Regina Mab. Queen Mab, the fairies’ midwife,
appare su una carrozza fatta con “an empty hazel-nut” (La Regina Mab,
levatrice delle fate ?appare su una carrozza fatta con: “un guscio di
nocciola”); Her waggon-spokes made of long spinners’ legs; The cover,
of the wings of grasshoppers; The traces, of the smallest spider’s web;
The collars, of the moonshinÈs watery beams; Her whip, of cricket’s
bone; the lash, of film; Lunghe zampe di ragno sono i raggi delle sue
ruote; d’elitre di cavalletta è il mantice; di ragnatela della più sottile i
finimenti; roridi raggi di luna i pettorali; manico della frusta un osso di
grillo; sferza, un filo senza fine e non dimentichiamo che questa
carrozza è “drawn with a team of little atomies” (scarrozzata da un
equipaggio d’atomi impalpabili): un dettaglio decisivo, mi sembra, che
permette al sogno della Regina Mab di fondere atomismo lucreziano,
neoplatonismo rinascimentale e celtic-lore. Anche il passo danzante di
Mercuzio vorremmo che ci accompagnasse fin oltre la soglia del nuovo
millennio. L’epoca che fa da sfondo a Romeo and Juliet ha molti aspetti
non troppo dissimili da quelli dei nostri tempi: le città insanguinate da
contese violente non meno insensate di quelle tra Capuleti e
Montecchi; la liberazione sessuale predicata dalla Nurse che non riesce
a diventare modello d’amore universale; gli esperimenti di Friar
Laurence condotti col generoso ottimismo della sua “filosofia naturale”
ma che non si è mai sicuri se verranno usati per la vita o per la morte. Il
Rinascimento shakespeariano conosce gli influssi eterei che connettono
macrocosmo e microcosmo, dal firmamento neoplatonico agli spiriti dei
metalli che si trasformano nel crogiolo degli alchimisti. Le mitologie
classiche possono fornire il loro repertorio di ninfe e di driadi, ma le
mitologie celtiche sono certo più ricche nella imagerie delle più sottili
forze naturali coi loro elfi e le loro fate. Questo sfondo culturale (penso
naturalmente agli affascinanti studi di Francis Yates sulla filosofia
occulta del Rinascimento e sui suoi echi nella letteratura) spiega perché
in Shakespeare si possa trovare l’esemplificazione più ricca del mio
tema. E non sto pensando solo a Puck e a tutta la fantasmagoria del
Dream, o a Ariel e a tutti coloro che “are such stuff As dreams are made
on,” (noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni,) ma
soprattutto a quella speciale modulazione lirica ed esistenziale che
permette di contemplare il proprio dramma come dal di fuori e
dissolverlo in malinconia e ironia. La gravità senza peso di cui ho parlato
a proposito di Cavalcanti riaffiora nell’epoca di Cervantes e di
Shakespeare: è quella speciale connessione tra melanconia e
umorismo, che è stata studiata in Saturn and Melancholy da Klibansky,
Panofsky, Saxl. Come la melanconia è la tristezza diventata leggera, così
lo humour è il comico che ha perso la pesantezza corporea (quella
dimensione della carnalità umana che pur fa grandi Boccaccio e
Rabelais) e mette in dubbio l’io e il mondo e tutta la rete di relazioni
che li costituiscono. Melanconia e humour mescolati e inseparabili
caratterizzano l’accento del Principe di Danimarca che abbiamo
imparato a riconoscere in tutti o quasi i drammi shakespeariani sulle
labbra dei tanti avatars del personaggio Amleto. Uno di essi, Jaques in
As You Like It, così definisce la melanconia (atto Iv, scena I): …but it is a
melancholy of my own, compounded of many simples, extracted from
many objects, and indeed the sundry contemplation of my travels,
which, by often rumination, wraps me in a most humorous sadness. …è
la mia peculiare malinconia composta da elementi diversi, quintessenza
di varie sostanze, e più precisamente di tante differenti esperienze di
viaggi durante i quali quel perpetuo ruminare mi ha sprofondato in una
capricciosissima tristezza. Non è una melanconia compatta e opaca,
dunque, ma un velo di particelle minutissime d’umori e sensazioni, un
pulviscolo d’atomi come tutto ciò che costituisce l’ultima sostanza della
molteplicità delle cose. Confesso che la tentazione di costruirmi uno
Shakespeare seguace dell’atomismo lucreziano è per me molto forte,
ma so che sarebbe arbitrario. Il primo scrittore del mondo moderno che
fa esplicita professione d’una concezione atomistica dell’universo nella
sua trasfigurazione fantastica, lo troviamo solo alcuni anni dopo, in
Francia: Cyrano de Bergerac. Straordinario scrittore, Cyrano, che
meriterebbe d’essere più ricordato, e non solo come primo vero
precursore della fantascienza, ma per le sue qualità intellettuali e
poetiche. Seguace del sensismo di Gassendi e dell’astronomia di
Copernico, ma soprattutto nutrito della “filosofia naturale” del
Rinascimento italiano – Cardano, Bruno, Campanella – Cyrano è il primo
poeta dell’atomismo nelle letterature moderne. In pagine la cui ironia
non fa velo a una vera commozione cosmica, Cyrano celebra l’unità di
tutte le cose, inanimate o animate, la combinatoria di figure elementari
che determina la varietà delle forme viventi, e soprattutto egli rende il
senso della precarietà dei processi che le hanno create: cioè quanto
poco è mancato perché l’uomo non fosse l’uomo, e la vita la vita, e il
mondo un mondo. Vous vous étonnez comme cette matière, brouillèe
pêle-mêle, au gré du hasard, peut avoir constitué un homme, vu qu’il y
avait tant de choses nécessaires à la construction de son être, mais
vous ne savez pas que cent milions de fois cette matière, s’acheminant
au dessein d’un homme, s’est arrêtée à former tantôt une pierre, tantôt
du plomb, tantôt du corail, tantôt une fleur, tantôt une comète, pour le
trop ou trop peu de certaines figures qu’il fallait ou ne fallait pas à
désigner un homme? Si bien que ce n’est pas merveille qu’entre une
infinie quantité de matière qui change et se remue incessamment, elle
ait rencontré à faire le peu d’animaux, de végétaux, de minéraux que
nous voyons; non plus que ce n’est pas merveille qu’en cent coups de
dés il arrive une rafle. Aussi bien est-il impossible que de ce remuement
il ne se fasse quelque chose, et cette chose sera toujours admirée d’un
étourdi qui ne saura pas combien peu s’en est fallu qu’elle n’ait pas été
faite. (Voyage dans la Lune) Vi meravigliate come questa materia
mescolata alla rinfusa, in balia del caso, può aver costituito un uomo,
visto che c’erano tante cose necessarie alla costruzione del suo essere,
ma non sapete che cento milioni di volte questa materia, mentre era sul
punto di produrre un uomo, si è fermata a formare ora una pietra, ora
del piombo, ora del corallo, ora un fiore, ora una cometa, per le troppe
o troppo poche figure che occorrevano o non occorrevano per
progettare un uomo. Come non fa meraviglia che tra un’infinita
quantità di materia che cambia e si muove incessantemente, sia
capitato di fare i pochi animali, vegetali, minerali che vediamo, così
come non fa meraviglia che su cento colpi di dadi esca una pariglia. È
pertanto impossibile che da questo lieve movimento non si faccia
qualcosa, e questa cosa sarà sempre fonte di stupore per uno sventato
che non pensa quanto poco è mancato perché non fosse fatta. Per
questa via Cyrano arriva a proclamare la fraternità degli uomini con i
cavoli, e così immagina la protesta d’un cavolo che sta per essere
tagliato: “Homme, mon cher frère, que t’ai-je fait qui mérite la mort?
(…) Je me lève de terre, je m’épanouis, je te tends les bras, je t’offre
mes enfants en graine, et pour récompense de ma courtoisie, tu me fais
trancher la tête!”. “mio caro fratello uomo, che cosa ho fatto per
meritare la morte? (…) Mi sollevo da terra, mi schiudo, stendo le
braccia, ti offro i miei figli in seme e, per ricompensa della mia cortesia,
tu mi fai tagliare la testa!”. Se pensiamo che questa perorazione per una
vera fraternità universale è stata scritta quasi centocinquant’anni prima
della Rivoluzione francese, vediamo come la lentezza della coscienza
umana a uscire dal suo parochialism antropocentrico può essere
annullata in un istante dall’invenzione poetica. Tutto questo nel
contesto d’un viaggio sulla luna, dove Cyrano de Bergerac supera per
immaginazione i suoi più illustri predecessori, Luciano di Samosata e
Ludovico Ariosto. Nella mia trattazione sulla leggerezza, Cyrano figura
soprattutto per il modo in cui, prima di Newton, egli ha sentito il
problema della gravitazione universale; o meglio, è il problema di
sottrarsi alla forza di gravità che stimola talmente la sua fantasia da
fargli inventare tutta una serie di sistemi per salire sulla luna, uno più
ingegnoso dell’altro: con fiale piene di rugiada che evaporano al sole;
ungendosi di midollo di bue che viene abitualmente succhiato dalla
luna; con una palla calamitata lanciata in aria verticalmente ripetute
volte da una navicella. Quanto al sistema della calamita, sarà sviluppato
e perfezionato da Jonathan Swift per sostenere in aria l’isola volante di
dimensioni espresse in cifre, da proprietà spaziali e temporali enunciate
nei termini rigorosi e impassibili dei trattati scientifici. In virtù di questa
logica e di questo stile, Micromégas riesce a viaggiare nello spazio da
Sirio a Saturno alla Terra. Si direbbe che nelle teorie di Newton ciò che
colpisce l’immaginazione letteraria non sia il condizionamento d’ogni
cosa e persona alla fatalità del proprio peso, bensì l’equilibrio delle
forze che permette ai corpi celesti di librarsi nello spazio.
L’immaginazione del secolo Xviii è ricca di figure sospese per aria. Non
per nulla agli inizi del secolo la traduzione francese delle Mille e una
Notte di Antoine Galland aveva aperto alla fantasia occidentale gli
orizzonti del meraviglioso orientale: tappeti volanti, cavalli volanti, geni
che escono da lampade. Di questa spinta dell’immaginazione a superare
ogni limite, il secolo Xviii conoscerà il culmine col volo del Barone di
Münchausen su una palla di cannone, immagine che nella nostra
memoria si è identificata definitivamente con l’illustrazione che è il
capolavoro di Gustave Doré. Le avventure di Münchausen, che come le
Mille e una Notte non si sa se abbiano avuto un autore, molti autori o
nessuno, sono una continua sfida alla legge della gravitazione: il Barone
è portato in volo dalle anatre, solleva se stesso e il cavallo tirandosi su
per la coda della parrucca, scende dalla luna tenendosi a una corda più
volte tagliata e riannodata durante la discesa. Queste immagini della
letteratura popolare, insieme a quelle che abbiamo visto della
letteratura colta, accompagnano la fortuna letteraria delle teorie di
Newton. Giacomo Leopardi a quindici anni scrive una storia
dell’astronomia di straordinaria erudizione, in cui tra l’altro compendia
le teorie newtoniane. La contemplazione del cielo notturno che ispirerà
a Leopardi i suoi versi più belli non era solo un motivo lirico; quando
parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava.
Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del
vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli,
una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e
soprattutto la luna. La luna, appena s’affaccia nei versi dei poeti, ha
avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di
sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. In un primo momento
volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna: seguire le apparizioni
della luna nelle letterature d’ogni tempo e paese. Poi ho deciso che la
luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è
stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla
luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie
occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di
quella luce o a proiettarvi l’ombra della sua assenza. Dolce e chiara è la
notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la
luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. (…) O graziosa luna, io mi
rammento che, or volge l’anno, sovra questo colle io venia pien
d’angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva siccome or fai,
che tutta la rischiari. (…) O cara luna, al cui tranquillo raggio danzan le
lepri nelle selve… (…) Già tutta l’aria imbruna, torna azzurro il sereno, e
tornan l’ombre giù da’ colli e da’ tetti, al biancheggiar della recente
luna. (…) Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi
la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Molti fili si sono
intrecciati nel mio discorso? Quale filo devo tirare per trovarmi tra le
mani la conclusione? C’è il filo che collega la Luna, Leopardi, Newton, la
gravitazione e la levitazione… C’è il filo di Lucrezio, l’atomismo, la
filosofia dell’amore di Cavalcanti, la magia rinascimentale, Cyrano… Poi
c’è il filo della scrittura come metafora della sostanza pulviscolare del
mondo: già per Lucrezio le lettere erano atomi in continuo movimento
che con le loro permutazioni creavano le parole e i suoni più diversi;
idea che fu ripresa da una lunga tradizione di pensatori per cui i segreti
del mondo erano contenuti nella combinatoria dei segni della scrittura:
l’Ars Magna di Ramòn Llull, la Kabbala dei rabbini spagnoli e quella di
Pico della Mirandola… Anche Galileo vedrà nell’alfabeto il modello
d’ogni combinatoria d’unità minime… Poi Leibniz… Devo imboccare
questa strada? Ma la conclusione che mi attende non suonerà troppo
scontata? La scrittura modello d’ogni processo della realtà… anzi, unica
realtà conoscibile… anzi, unica realtà tout-court… No, non mi metterò
su questo binario obbligato che mi porta troppo lontano dall’uso della
parola come io la intendo, come inseguimento perpetuo delle cose,
adeguamento alla loro varietà infinita. Resta ancora un filo, quello che
avevo cominciato a svolgere all’inizio: la letteratura come funzione
esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere.
Forse anche Lucrezio, anche Ovidio erano mossi da questo bisogno:
Lucrezio che cercava – o credeva di cercare – l’impassibilità epicurea;
Ovidio che cercava – o credeva di cercare – la resurrezione in altre vite
secondo Pitagora. Abituato come sono a considerare la letteratura
come ricerca di conoscenza, per muovermi sul terreno esistenziale ho
bisogno di considerarlo esteso all’antropologia, all’etnologia, alla
mitologia. Alla precarietà dell’esistenza della tribù, – siccità, malattie,
influssi maligni – lo sciamano rispondeva annullando il peso del suo
corpo, trasportandosi in volo in un altro mondo, in un altro livello di
percezione, dove poteva trovare le forze per modificare la realtà. In
secoli e civiltà più vicini a noi, nei villaggi dove la donna sopportava il
peso più grave d’una vita di costrizioni, le streghe volavano di notte sui
manici delle scope e anche su veicoli più leggeri come spighe o fili di
paglia. Prima di essere codificate dagli inquisitori queste visioni hanno
fatto parte dell’immaginario popolare, o diciamo pure del vissuto.
Credo che sia una costante antropologica questo nesso tra levitazione
desiderata e privazione sofferta. È questo dispositivo antropologico che
la letteratura perpetua. Prima, la letteratura orale: nelle fiabe il volo in
un altro mondo è una situazione che si ripete molto spesso. Tra le
“funzioni” catalogate da Propp nella Morfologia della fiaba esso è uno
dei modi del “trasferimento dell’eroe” così definito: “Di solito l’oggetto
delle ricerche si trova in un “altro” “diverso” reame, che può essere
situato molto lontano in linea orizzontale o a grande altezza o
profondità in senso verticale”. Propp passa in seguito a elencare vari
esempi del caso “L’eroe vola attraverso l’aria”: “a dorso di cavallo o
d’uccello, in sembianza d’uccello, su una nave volante, su un tappeto
volante, sulle spalle d’un gigante o d’uno spirito, nella carrozza del
diavolo, ecc’“. Non mi pare una forzatura connettere questa funzione
sciamanica e stregonesca documentata dall’etnologia e dal folklore con
l’immaginario letterario; al contrario penso che la razionalità più
profonda implicita in ogni operazione letteraria vada cercata nelle
necessità antropologiche a cui essa corrisponde. Vorrei chiudere questa
conferenza ricordando un racconto di KafKa, Der Kübelreiter (Il cavaliere
del secchio). È un breve racconto in prima persona, scritto nel 1917 e il
suo punto di partenza è evidentemente una situazione ben reale in
quell’inverno di guerra, il più terribile per l’impero austriaco: la
mancanza di carbone. Il narratore esce col secchio vuoto in cerca di
carbone per la stufa. Per la strada il secchio gli fa da cavallo, anzi lo
solleva all’altezza dei primi piani e lo trasporta ondeggiando come sulla
groppa d’un cammello. La bottega del carbonaio è sotterranea e il
cavaliere del secchio è troppo in alto; stenta a farsi intendere dall’uomo
che sarebbe pronto ad accontentarlo, mentre la moglie non lo vuole
sentire. Lui li supplica di dargli una palata del carbone più scadente,
anche se non può pagare subito. La moglie del carbonaio si slega il
grembiule e scaccia l’intruso come caccerebbe una mosca. Il secchio è
così leggero che vola via col suo cavaliere, fino a perdersi oltre le
Montagne di Ghiaccio. Molti dei racconti brevi di Kafka sono misteriosi
e questo lo è particolarmente. Forse Kafka voleva solo raccontarci che
uscire alla ricerca d’un po’ di carbone, in una fredda notte del tempo di
guerra, si trasforma in quête di cavaliere errante, traversata di carovana
nel deserto, volo magico, al semplice dondolio del secchio vuoto. Ma
l’idea di questo secchio vuoto che ti solleva al di sopra del livello dove si
trova l’aiuto e anche l’egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di
privazione e desiderio e ricerca, che ti eleva al punto che la tua umile
preghiera non potrà più essere esaudita, – apre la via a riflessioni senza
fine. Avevo parlato dello sciamano e dell’eroe delle fiabe, della
privazione sofferta che si trasforma in leggerezza e permette di volare
nel regno in cui ogni mancanza sarà magicamente risarcita. Avevo
parlato delle streghe che volavano su umili arnesi domestici come può
essere un secchio. Ma l’eroe di questo racconto di Kafka, non sembra
dotato di poteri sciamanici né stregoneschi; né il regno al di là delle
Montagne di Ghiaccio sembra quello in cui il secchio vuoto troverà di
che riempirsi. Tanto più che se fosse pieno non permetterebbe di
volare. Così, a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo
millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo
capaci di portarvi. La leggerezza, per esempio, le cui virtù questa
conferenza ha cercato d’illustrare.

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